Maurizio Calvesi

Dal cat. della mostra “Ubaldo Bartolini - Stefano Di Stasio”. Gall. Pio Monti. Roma, 1985
Mondrian è non solo il massimo ma anche il più emblematico degli astrattisti ed è questa sua seconda immagine che può essere confrontata, senza enfasi, al nostro Bartolini e ai suoi problemi, che del neoplasticismo mondrianeo mi paiono il perfetto contrario, o rovescio: non solo e non tanto perché dall'astrazione è risalito all'"albero", ma per la fissità del modulo ripetuto.
Il processo di Mondrian è consistito nell'eliminazione progressiva del fenomenico (o del naturale), identificato con il tragico, e nello stabilire un'equivalenza tra l'Assoluto e la pittura. Ben sapeva che l'iconografia è parte integrante ed essenziale della pittura, quella che determina la tipologia del messaggio, ed ha quindi elaborato un'iconografia dell'Assoluto o del non-naturale: la griglia geometrica delle linee. In questa griglia o iconografia ha calato la vita o animazione della pittura, per significare che questa animazione non è mimetica del naturale, ma alternativa ad esso. L'iconografia è fissa, paradigmatica; la vita spirituale e avulsa della pittura si rinnova ad ogni incarnazione della sua qualità.
Ubaldo Bartolini, che di Mondrian giurerei sia un ammiratore, s'è posto invece il problema di stabilire un'iconografia del naturale, ma conferendole un'analoga qualità di schema o di paradigma, ovvero un analogo controllo mentale. Ciò era possibile ricorrendo ad un'immagine oggettiva, o meglio già oggettivata e fissata nella storia della cultura ed ha scelto acutamente a questo scopo il paesaggio "classico".
L'astrattismo neo-plastico propone un archetipo, che ricongiunge la razionalità alla psicologia dell'orientamento: l'incrocio delle verticali e delle orizzontali. Bartolini propone un topos della storia dell'arte, che ricongiunge natura e cultura. All'interno di questo luogo deputato o, appunto, classico, iconografia e pittura fanno corpo in una serie infinita di varianti, che restituiscono lo schema alla ricchezza delle possibilità fenomeniche. Il riferimento storico, fissandosi nella ripetizione, ribalta il proprio particolarismo in un'Identità metastorica, che assume la stessa assolutezza del paradigma mondrianeo, ma colmando la frattura o la distanza tra natura e pittura. Contrariamente a Mondrian, per Bartolini natura e pittura si fondono in un'immagine unitaria; sono entrambe entità "pure", benché (o perché) entrambe insidiate dai perniciosi inquinamenti del consumo e delle tecnologie industriali. Può restituirle alla loro purezza solo quell'abito umanistico e culturale di cui il passato, non il presente, e specchio; ovvero solo il desiderio, che splende nelle trasparenze del pennello.
Il "tragico", che per Mondrian è il fenomeno di natura, per Bartolini e per noi tutti è l'artificio tecnologico. Al pennello esorcista, cui è ormai interdetta la possibilità di rappresentare, si affida il compito di rievocare; ma con così palpabile e attuale sensibilità, che il fantasma prende corpo nella realtà indistruttibile di un'Immagine.

Dal cat. della mostra “Pittori Anacronisti Italiani”, Centro Cultural Conde Duque, Madrid, 1985
Anche Ubaldo Bartolini come la più parte di questi pittori, ha una partenza “concettuale”, nel vivo degli anni Settanta. Allora espose il pennello come oggetto-feticcio (1972), matrice di un desiderio quasi impossibile: ma i vivi colori di quel desiderio erano stampati sulle setole ben pettinate e raggrumate del pennello, nelle forme schioccanti e delicate di un paesaggio macchiaiolo, dal cielo azzurro-azzurro, con un campo di grano giallo e ombroso e un casolare dal tetto rosso-rosso. Ancora d’allusione ottocentesca sono i primi paesaggi dipinti alla fine del decennio, per poi formalizzare il motivo in uno stilema seicentesco, di paesaggio classico tra Poussin e Claudio di Lorena; inizialmente questo stilema ha un’aura quasi pop di riproduzione della riproduzione e sembra rinviare alla scatola di cioccolatini o alla riproduzione Fabbri; ma rinviare alla scatola di cioccolatini o alla più vibrante e modulato, perviene al sostanziale recupero interno del modello. Bartolini realizza così il perfetto travestimento mentale nei panni di un canone della tradizione, assunto come luogo deputato della pittura pura.
Lavorando instancabilmente all’interno di questo motivo, con il puntiglio cerebrale e la purezza di un Mondrian alla rovescia (che dall’astratto recuperi il fenomenico), il nostro artista ha prodotto una delle operazioni più originali e impeccabili per rigore, tra quelle che lasceranno il segno negli anni Ottanta.

Dal cat. della mostra “Un’alternativa Europea”, Gallerie Civiche d’Arte Moderna, Ferrara. Ed. Vangelista, 1991
I paesaggi di Bartolini partono pur sempre da uno schema “classico” ma piegano questo schema a una singolare stilizzazione della fantasia tra irreali andamenti ripidi o inclinati, riassumendo le masse in dorati controluce che le svuotano di ogni naturalismo.

Ubaldo Bartolini
dal cat. della mostra "Bisogna affidarsi alla natura", Sala della Promoteca del Campidoglio, Roma, 1991, Ed.Riccardo Viola, Roma, 1991
Bartolini, dal suo recupero concettuale, dal suo gioco di prototipi, si inoltra nel suo sogno "senza tempo". Il tempo storico in cui si è addentrato diventa una negazione del tempo e della storia, un sospeso nirvana. Il luogo perenne di una beatitudine descritta, serenamente raccontata; il racconto di una storia antica che riflette un'emozione attuale, un'emozione che invera il passato nel presente, annullandoli reciprocamente in un desiderio di durata. L'estasi trasforma appunto il tempo in durata, ma anche il tragitto della durata può svoltare; ogni sogno, anche il più beato, subisce le proprie trasformazioni. L'estasi di Bartolini è un viaggio, dunque uno spostamento: come quello delle sue figurine verso orizzonti lontani. Anzi Bartolini è una di quelle figurine viaggianti e di valle in valle raggiunge ora territori nuovi, diversi. Dai regni (classici e pittoreschi) dell'estasi raggiunge, tra il 1984 e il 1985, un paesaggio più irreale, dove si profilano forre e precipizi, attraversato da prospettive più sghembe, dunque un paesaggio più inquieto.
Questo itinerario trova del resto una sua specularità nella storia, come se il pittore si fosse mosso parallelamente: nella sua geografia fantastica, appunto, e nella storia. Anche nel percorso della storia della pittura, infatti, al paesaggio classico e al pittoresco, succede un altro genere di paesaggio, quello sublime, matrice del Romanticismo.
[...] Il paesaggio del sublime è il paesaggio del diseguale. Nel paesaggio classico, l'anima si identifica con la natura e avverte come attutita, in quel cullarsi, in quella anestesia, la propria presenza. Nel paesaggio del sublime, l'anima si fa consapevole di se stessa, della propria essenza capace di dolore, sente se stessa come si può sentire una ferita; misura se stessa, si riconosce anch'essa piccola e prova spavento, ma allo spavento reagisce con il coraggio, con la volontà di farsi grande, di affrontare la prova; o con la decisione di abbandonarsi alla squassante tempesta, di "far naufragio".
è allora che il paesaggio diventa davvero il "luogo dell'anima", in quanto l'anima vi si rappresenta non più passivamente, ma come dire "in azione", e dunque protagonista: protagonista di una lotta o di una resa, di un romantico naufragio. Ed è vero che il naufragio nel nulla e nell'immaginazione dell'infinito, fra l'attonito silenzio che segue allo strepito di remoti combattimenti, può essere, come insegna Leopardi, anche "dolce". Come dolce è la malinconia, "stato d'animo" per eccellenza, nel paesaggio-stato d'animo del tardo Romanticismo che succede, come appunto in una resa, agli scontri del sublime; per poi riaccendersi d'inquietudine nei pur rari paesaggi dell'Espressionismo.
Ma tutte queste vicende del paesaggio come "luogo dell'anima", dal dislivello del sublime alle consolazioni della malinconia e fin quasi alle soglie contratte dell'Espressionismo, Bartolini ha ripercorso nel suo itinerario "storico" e interiore: per ricavarne una sintesi sua propria, non più convenzionalmente "generale", questa volta, ma spiccatamente individualista.
è ora possibile sciogliere l'enunciato che abbiamo proposto in apertura: che cioè nella nascita e negli sviluppi del paesaggio di Bartolini sono entrati in gioco due parametri apparentemente inconciliabili, ma in realtà collegati da una sia pure diversa funzione del simbolo. Quello del paesaggio come stereotipo e quello del paesaggio come luogo dell'anima.
Stereotipo e simbolo possono infatti essere sinonimi, se la riduzione a stereotipo è operata (come fa inizialmente Bartolini) per evidenziare il simbolo: il paesaggio come stereotipo della pittura voleva essere appunto un suo (del far pittura) simbolo. Il successivo trapasso si realizza nella constatazione che il paesaggio, dunque simbolo " 'generale" della pittura, può anche essere e sempre più diventare il simbolo, il luogo simbolico dell'interiorità dell'artista (luogo dell'anima) e dunque della sua individualità, ora riemergente dalle "equivalenze" del Concettualismo. [...]
I riferimenti storici, nuovi riferimenti, da Turner a Friedrich, al paesaggio "alpino" sussistono, ma rifusi appunto non più in un'idea generale, bensì in un'invenzione individuale e particolarissima; o se vogliamo non più in un'idea "piana", ma decisamente "irta". è come se i precedenti scenari subissero una deformazione ottica, slungandosi, contraendosi, storcendosi, divergendo in apici e abissi, obliterandosi, accentuando il loro carattere puramente fantastico e anti-naturalistico: pur sempre, e anzi ancor più, di radice mentale. Ma questa rappresentazione mentale, dunque tutta interiore, si ricongiunge ora drasticamente all'interiorità "globale" dell'artista, fa parlare più scopertamente il sentimento.
[...] Non vi è più un dolce inarcarsi e digradare di profili, ma un capogiro di orizzonti che si sollevano come marosi, di tagli inediti in nuovi incontri tra pieni (non più sotto ma a sinistra, magari) e di vuoti (non più sopra ma di traverso), di masse che si innalzano fino all'orlo superiore della tela, lievitando nella loro rarefazione, di picchi che garriscono come vessilli, di prospettive e sentieri perpendicolari o sterzanti. Ma tutto sempre con quella sostanziosa levità della pittura, che da materia dolcemente plasmante come cera di miele si è fatta mite delirio di trasformazioni, agente di metamorfosi ora vitree ora pastosamente laviche, ora frullate e friabili, tra accensioni trascoloranti o annebbianti di luce irreale.
Dicevamo: sgomento del sublime, melanconia del post-sublime, con qualche dolorosa fitta dell'Espressionismo. Ma in realtà quasi un El Greco rinato sulle spoglie di Turner e i persistenti languori di Corot, un manierista folle del paesaggio o post-paesaggio moderno. Un sognatore di nuovi, irreversibili naufragi.
Sotto alla fisionomia ingannevolmente "nordica" del suo sublime malinconico ed espressionista, tra le forre irreali e gli irreali colli della sua anima-paesaggio, sarà allora forse possibile riconoscere quel familiare, patrio territorio (anche dell'anima) tanto prossimo a Macerata; quell'ermo colle di Recanati (quella poesia di pochi versi).

Dal cat. della mostra “I Borghese, una committenza nel 1996”, Fattoria Medicea, Monsummano Terme, 1996, Ed. Progetti Museali, 1996
La vena romantica di Ubaldo Bartolini può essere paragonata a un mal sottile contratto in camice bianco, in un laboratorio di analisi dei virus pittorico, ovvero è il dietrofront di quel suo mentalismo che l'aveva portato, dall'inizio degli anni Settanta, a individuare nel genere convenzionale dei paesaggio uno stereotipo da esercitazione concettuale.
Di quella origine artificiale, i suoi scenari di natura conservano l'ossessione di uno schema moltiplicato in infinite varianti, con l'intervento di una sensibilità e di un pathos distillati quasi nell'estenuazione.

Dal cat. della mostra “Novecento, Arte e Storia in Italia - L’arte in Italia nel XX secolo”, Scuderie Papali del Quirinale, Roma, 2000-2001, Ed. Skira, Milano, 2000
La tendenza che prende il nome, anch’esso provocatorio, di “Anacronismo” (con la variante alquanto prossima della “Pittura Colta”) associa a Mariani altri pittori tra cui Stefano Di Stasio e Ubaldo Bartolini.
Quest’ultimo, d’area anch’egli concettuale, isola nel 1971 lo strumento della pittura, il pennello, già presente nelle opere di Paolini e di Johns, per farne il supporto dell’immagine che è sua destinazione produrre. è il paradosso di un pennello che non dipinge ma riceve la pittura. Bartolini sceglie un paesaggio che viene eseguito frontalmente sulle setole del pennello, a da lì muove per fare di questo particolare “genere” della pittura, emblematico della sua stessa storia, l’oggetto di continue rielaborazioni, dal paesaggio stereotipo a paesaggio cartolina, al paesaggio “classico”, al paesaggio romantico, a invenzioni di paesaggio che introducono stilizzazioni o forme fantastiche, ispirate al motivo del “Sublime” nell’incontro tra una piccola figura e lo spazio dilatato inarrivabile. I dipinti di Bartolini possono così suggerire un’immagine laica del trascendente dell’arte come trascendenza con finissime qualità pittoriche.
Le poetiche dell’”Anacronismo” sottintendono un ruolo “inattuale” dell’arte, ovvero reattivo all’attualità dilagante del non valore.